VII.

Giovanni Boccaccio

Mentre il Petrarca con le vicende illustri della sua vita di letterato famoso, con i suoi rapporti da pari a pari con potenti signori, con cardinali, con dogi, re e imperatori, con la forte preminenza di maestro nella formazione della cultura preumanistica, è personalità ineliminabile dal quadro della letteratura del Trecento già sul piano della biografia, per Giovanni Boccaccio (1313-1375) la delineazione delle vicende biografiche è certo di molto minore importanza storica se, come poi faremo, non se ne rilevi il significato piú interno in rapporto con lo svolgimento dello spirito e dell’arte dello scrittore, il quale, per certi aspetti, può apparire persino piú storicamente innovatore dello stesso Petrarca.

1. La vita

Occorre anzitutto dissipare la complicata e mitica elaborazione di una vicenda biografica che il Boccaccio costruí con simboli ed allegorie autobiografiche nelle opere giovanili in rapporto al suo desiderio di nobilitare le proprie origini e di adeguarle in parte all’ambiente cortese e nobiliare in cui allora viveva in Napoli.

Nulla ci permette infatti di accogliere le ipotesi di una sua nascita a Parigi da madre francese (tale Jeanne de la Roche) di famiglia aristocratica o addirittura principesca, che sarebbe stata poi abbandonata dal padre del Boccaccio, il mercante e cambiatore Boccaccio di Chellino, certaldese di origini contadine, mentre il bambino sarebbe stato portato dal padre a Certaldo e poi a Firenze nella casa governata dalla matrigna.

Par piú sicuro pensare che il Boccaccio sia nato a Certaldo, verso la fine del 1313, figlio illegittimo di Boccaccio di Chellino che voleva avviarlo al commercio e che perciò lo inviò assai presto (intorno al 1327-1328) a Napoli presso il banco di un mercante a lui legato per affari.

Ma alla mercatura il giovane Boccaccio era assolutamente negato e dopo sei anni di inutili tentativi lo stesso padre se ne convinse e gli permise di iscriversi ai corsi di diritto canonico dell’Università di Napoli: con una nuova perdita di circa altri sei anni, perché il giovane sempre meglio aveva chiarito a se stesso la propria unica e intransigente vocazione poetica che lo allontanava dal commercio e dallo studio giuridico e poteva invece ben trovare occasioni e stimoli nella vita raffinata della corte di Napoli.

A questa vita di corte, in cui la spregiudicatezza morale si associava al culto dell’eleganza e di una letteratura romanzesca e cavalleresca, il giovane borghese, dotato di notevoli mezzi finanziari, cercò di adeguarsi sia con il modo di vita sia, e piú, con lo studio letterario (agevolato dalla consuetudine con uomini dotti come Paolo da Perugia, bibliotecario del re, e l’astronomo Andalò Del Negro) e con una precoce attività artistica iniziata intorno ai vent’anni con la Caccia di Diana e con rime, e poi proseguita piú impegnativamente con i romanzi e poemi di cui poi parleremo (Filocolo, Filostrato, Teseida).

E in questi egli riviveva e adornava, se non precisi casi biografici quali egli volle presentarli allegoricamente (l’amore, prima corrisposto e poi tradito, per una giovane signora di alto lignaggio e addirittura figlia naturale del re, Maria, sposa del conte di Aquino, cantata sotto il nome di Fiammetta), certo vicende della sua giovanile esperienza amorosa che giustificano e sorreggono il notevole grado di sapienza psicologica e l’appassionatezza con cui il Boccaccio espresse la materia amorosa di queste sue opere.

Ma intorno al 1340, a causa del fallimento della banca dei Bardi cui il padre era legato, il Boccaccio fu richiamato a Firenze e a malincuore dové lasciare quella Napoli angioina che finí per identificarsi, nel suo ricordo, con la stessa fervida e splendida gioventú, e con un ideale di vita cortese e raffinata e libera a cui lo scrittore ripensò continuamente nella diversa situazione o della piccola natale Certaldo o della piú severa e mercantile Firenze, dove egli ebbe vita piú angusta ed economicamente difficile, ben diversa da quella sicura, agiata ed onorata del Petrarca.

Non che a un certo punto mancassero del tutto al Boccaccio riconoscimenti da parte della sua città, che (dopo i suoi tentativi di trovare impiego e protezione presso signori dell’Italia settentrionale, come i Da Polenta di Ravenna e gli Ordelaffi di Forlí) affidò a lui non pochi onorevoli uffici e incarichi di ambascerie presso i signori di Romagna (nel 1350), presso i papi Innocenzo VI (1354) e Urbano V (1365 e 1367) ad Avignone e a Roma, presso Ludovico di Brandeburgo nel Tirolo (1351). E che assai piú tardi (nel ’73) lo incaricò di commentare pubblicamente la Divina Commedia nella chiesa di Santo Stefano di Badia.

Ma si trattò sempre di impieghi saltuari e poco retribuiti, sicché la vita del Boccaccio dopo la morte del padre (1349) è contraddistinta dall’incerta sistemazione e dalla delusione con cui egli, pur non avido e ambizioso, considerò la propria situazione economica aggravata da una precoce vecchiaia e da crescenti acciacchi fisici.

Malgrado ciò anche l’ultimo periodo della vita del Boccaccio fu un periodo di lavoro e di studio, caratterizzato da un impegno sempre maggiore in opere di erudizione, in ricerche filologiche e, insomma, in una forte partecipazione alla incipiente cultura umanistica, ma insieme da una forte preoccupazione religiosa, da una crescente ansia per la propria vita spirituale sino al rischio di una conversione ascetica che avrebbe messo in pericolo la stessa esistenza del Decameron, specie quando un monaco, Giachino Ciani, gli portò, nel ’62, il messaggio profetico del certosino senese Pietro Petroni, morto poco prima in odore di santità: messaggio che gli ingiungeva di abbandonare la poesia profana se non voleva perdere la vita eterna.

Fu proprio in questo caso che l’amicizia con il Petrarca (che egli aveva conosciuto a Firenze nel 1350, recandosi poi a visitarlo piú volte a Padova, a Milano, a Venezia, e mantenendo sempre con lui una nutrita corrispondenza) portò al Boccaccio consigli piú equilibrati, dissuadendolo da atteggiamenti e decisioni estreme (come la distruzione del Decameron) e confermandolo nella possibile conciliazione tra la fede religiosa e l’attività poetica.

Dopo un amarissimo tentativo di ritornare a Napoli presso il suo vecchio e potentissimo amico Niccolò Acciaiuoli, tentativo finito in una grave delusione (si sentí trascurato e trattato in maniera del tutto sproporzionata alla sua condizione di grande letterato), il Boccaccio passò gli ultimi anni a Firenze e a Certaldo in condizioni assai difficili e penose e a Certaldo si spense nella casa paterna, il 21 dicembre 1375, a sessantadue anni.

2. Le opere

Tutta la vita del Boccaccio è dominata da un alto entusiasmo per la poesia e per la cultura letteraria in quanto esse permettono di definire, esprimere, nobilitare gli aspetti piú spontanei ed autentici della vita, al cui libero espandersi il Boccaccio è piú istintivamente attratto di quanto non avvenga in Dante o nel Petrarca.

E se solo nel capolavoro, il Decameron, egli riuscirà ad armonizzare poeticamente letteratura e vita e in una piú profonda e precisa prospettiva (salvare, narrando, la vita nella complessità dei suoi elementi e nella sua libertà, da ogni limitazione convenzionale, dal pensiero della morte, dalla rinuncia ascetica), già nel lungo cammino delle opere preparatorie il Boccaccio ben mostra il filo rosso della sua vocazione e della sua volontà di narratore, di scrittore che non ha tanto tesi particolari da cui far dipendere la sua opera, quanto motivi di realtà e di vita da far rivivere nella dimensione piú bella e sicura dell’arte. Da una parte un senso piú profondo, vasto e spregiudicato della realtà umana (ché gli elementi religiosi o riappariranno nel periodo piú tardo e piú stanco o saranno parte di una nobilitazione letteraria e non bisogno dell’animo), dall’altra una volontà, prima piú ingenua, poi piú sicura ed esperta di dare alla rappresentazione e al possesso della realtà la nobilitazione dell’arte, mediante lo studio e l’applicazione assai aperta ed eclettica dei mezzi espressivi dei classici (specie Ovidio, Virgilio, Seneca tragico, piú tardi Tito Livio e Valerio Massimo) e della retorica medievale lirica e romanzesca (fra i cantari popolareschi italiani, i poemi francesi, gli esempi lirici dello Stil novo e di Dante). E sulla via del narrare e del rappresentare, un crescente adeguarsi dell’attenzione e riproduzione della realtà esterna e descrivibile a quella della realtà piú interessante per l’uomo, quella psicologica, quella dei moti dell’animo e delle sue interne ragioni, dei suoi mutamenti, della sua sensibilità e sensualità, delle sue amarezze e delle sue gioie. E prima essa si presenta in forme piú autobiografiche (anche là dove il Boccaccio parla di altri personaggi), poi in una sempre maggiore oggettività.

Mentre sulla via della capacità artistica, mai disgiunta dall’arricchimento e approfondimento dei motivi interni, crescono, da una iniziale dispersività e impaccio piú artificioso, la sobrietà, la duttilità, la funzionalità dell’espressione alla piú articolata e acuta sensibilità della realtà dell’uomo.

Cosí nel loro progresso (seppure non rettilineo, ma complesso e vario) vanno considerate le opere del periodo napoletano e fiorentino prima del Decameron.

Da una faticosa e cortigianesca esercitazione giovanile, la Caccia di Diana, scritta poco dopo i venti anni (vi si descrivono, in terzine dantesche, le belle dame napoletane), e dalle prime rime che riflettono modi stilnovistici in una disposizione piú alla narrazione e alla descrizione di un paesaggio, si passa al primo tentativo piú ambizioso del narratore: un romanzo in prosa intitolato Il Filocolo (e cioè, secondo una errata etimologia dal greco, «fatiche d’amore»), che narra, in un clima piú ingenuo e insieme aggravato da risonanze letterarie piú evidenti, le vicende patetiche di due giovanetti, Florio e Biancifiore, il cui amore fedele trionfa di ogni avversità e viene descritto dal giovane scrittore con una piú forte partecipazione personale e passionale e con un eccesso di ornamenti descrittivi, ma certo già con la decisa vocazione del narratore tutto preso dalla vicenda e dai suoi svolgimenti e dalle sue ripercussioni nell’animo dei personaggi.

Come, con maggior capacità psicologica e narrativa, avviene poi nei due poemi in ottave (il Boccaccio è il primo scrittore illustre ad usare l’ottava come metro dei poemi cavallereschi e narrativi), il Filostrato (o vinto da amore) e il Teseida (o poema di Teseo). Il primo arricchisce la esperienza narrativa boccaccesca di una vicenda amorosa piú intensa e drammatica (la storia infelice del principe troiano Troilo che, innamorato della vedova Criseida e da questa prima ricambiato e poi improvvisamente tradito, muore nella battaglia in cui si è gettato disperato), il secondo rivela nella stessa fallita ambizione del Boccaccio ad un poema epico (la storia della guerra di Teseo contro le amazzoni) la sua natura di narratore di vicende amorose e psicologiche, e in quelle l’opera ha le sue pagine migliori, intorno alla storia delle rivalità fra due guerrieri, Arcita e Palemone, innamorati della principessa Emilia.

Nel periodo fiorentino, dopo il ’40, l’abbandono della raffinata corte napoletana coincide con una nuova maturazione dell’uomo e dello scrittore che viene acquistando una sempre maggiore lucidità di osservazione realistica, un gusto degli avvenimenti anche minuti e legati alla vita cittadina fiorentina, una piú sicura capacità e ricchezza di toni artistici.

Di questo nuovo progresso, piú che la notevole opera mescolata di prosa e poesia, l’Ameto o Commedia delle ninfe fiorentine (in cui una complicata cornice simbolica e allegorica racchiude sette racconti, quasi anticipo della struttura del Decameron) e ben piú che la debolissima, tutta allegorica Amorosa visione in terzine dantesche, sono alta prova due nuove opere, le migliori fra le opere minori del Boccaccio: l’Elegia di Madonna Fiammetta e il Ninfale fiesolano. La prima è il racconto in prosa della storia di una gentildonna napoletana abbandonata dal suo amante fiorentino, Panfilo (e la situazione può arieggiare, capovolta, quella del poeta abbandonato da Fiammetta-Maria di Aquino, ma ogni urgenza e prepotenza autobiografica è superata da una narrazione e da un’analisi psicologica lucida e intensa), la seconda è un incantevole racconto in ottave della patetica vicenda mitologica della ninfa Mensola e del pastore Africo (nella realtà due torrenti fiorentini) e del loro infelice amore troncato dalla crudele dea Diana di cui Mensola era una ninfa.

Mentre nell’Elegia di Madonna Fiammetta il Boccaccio porta avanti l’analisi psicologica e la sua espressione nei discorsi appassionati e lucidi della protagonista, nel Ninfale fiesolano egli raggiunge una freschezza e una inventività di situazioni delicate e realistiche (il chiuso tormento del giovane pastore innamorato e invano assillato dalle premurose, inquiete domande dei vecchi genitori, la gioia materna di Mensola che scherza con il suo bambino, le stesse scene pur accesamente sensuali del primo incontro amoroso dei due protagonisti) che in questo poemetto indicano una via se si vuole piú fiabesca, cantabile e raffinatamente popolaresca (che sarà ripresa da certa poesia umanistica polizianesca e laurenziana), ma che in rapporto al capolavoro è già spia della capacità artistica del Boccaccio e di certi toni piú gentili e patetici che hanno vita anche nel Decameron.

Perché andrà anzitutto chiarito energicamente il fatto che il Decameron non è certo, come è stato spesso pensato (donde condanne e riassettamenti da parte del potere ecclesiastico nel periodo della Controriforma), un libro dominato da una vena libertina e da un gusto osceno e sensuale.

3. Il «Decameron»

Tutta l’esperienza di vita e l’esperienza letteraria con il loro corrispettivo di esperienza psicologica, di meditazione sui casi umani, di esercizio della libera fantasia, si riversano nella formidabile e armonica creazione del Decameron. Di questo libro andrà anzitutto messa in rilievo proprio l’eccezionale ricchezza e fertilità di motivi, di argomenti, di casi e vicende e personaggi che il Boccaccio, narratore-poeta e non semplice espositore curioso di fatti e casi, riporta ad una centrale illuminazione, ad una direzione fondamentale (la sua forte e complessa visione della vita nei suoi limiti umani e mondani) ,e insieme inquadra, contiene, in forma piú esterna seppure non certo convenzionale, per mezzo di una costruzione poematica, simmetrica, architettonica: la cosiddetta cornice.

La cornice si appoggia al grande e nitido quadro iniziale, la descrizione della peste che infierí a Firenze nel 1348, e ne ricava lo spunto narrativo (l’incontro a Santa Maria Novella di tre giovani uomini e di sette giovani donne di alta condizione, che decidono di sfuggire alla epidemia rifugiandosi in una villa fuori della città dove cercheranno di passare il tempo nella maniera piú lieta) e lo stimolo iniziale di evasione dal pensiero della morte, dalla città squallida e disordinata dalla peste, in una specie di mondo superiore che ha alla base la realtà della cornice e del rapporto cortese dei dieci narratori e si espande, mediante la forza della fantasia, in un vasto e aperto quadro di vicende vitali. Solo che questa evasione non porta ad un semplice idillio o ad un eden tutto staccato dal mondo; e, a meglio comprendere la profondità e il significato del Decameron entro lo svolgimento della vita del Boccaccio e del suo rapporto con la storia del tempo, occorrerà insistere sul fatto che con quel grande libro, e con la voce possente della poesia, il Boccaccio intese, a suo modo, dare una risposta ai problemi angosciosi posti dalla crisi del tempo, dal drammatico incontro di gravi avvenimenti (appunto la terribile peste del ’48 che investí non solo Firenze, ma gran parte dell’Italia e dell’Europa, i fallimenti di tante grandi banche toscane). A quel drammatico momento, che implicava problemi di ordine umano e religioso, era piú facile, allora, rispondere con una riaffermazione dello spirito ascetico e devoto (rifugio in Dio e in una vita di rinuncia ai fallaci e peccaminosi beni mondani): una soluzione a cui, in parte, lo stesso Boccaccio si avvicinerà piú tardi nel suo senile ritorno a prospettive religiose tradizionali. Ma adesso, al culmine della sua maturità e della sua forza artistica e intellettuale, egli detta, con il Decameron, una ben diversa risposta: la risposta di una vita piena, potente di liberi istinti e di valori concreti, propri di una civiltà umana e mondana, di una società illuminata dalle virtú dell’intelligenza, della cortesia, della generosità, avvivata dalle passioni dell’uomo, incoercibili, naturali e perciò degne di essere rappresentate senza censure ipocrite e con la consapevolezza che solo su di esse possono duraturamente fondarsi le stesse virtú individuali e sociali. E se queste stesse virtú possono richiamare aspetti della vita medievale cortese aristocratica e alto-borghese, esse in realtà si collocano in un rapporto e in una giustificazione generale che non sono piú quelle tipiche del mondo medievale e si aprono potentemente verso quello che sarà piú tardi il mondo umanistico e rinascimentale. Cosí come la cornice, nel suo svolgimento (la divisione in dieci giornate, donde il titolo greco; la elezione del re o della regina che daranno il tema unitario per le novelle di ogni giornata; le conversazioni cortesi nei giardini della villa e le ballate che chiudono le giornate), non si risolve unicamente in un’astratta necessità di rigida e simmetrica costruzione medievale (e si è parlato di cattedrale gotica) entro cui incasellare le singole novelle.

La cornice, in cui ritorna anche la nostalgia boccaccesca per il sereno e aristocratico mondo della corte napoletana, crea appunto come una aristocratica e gentile atmosfera, libera e pure decorosa, che dà un tono unitario di giovanile letizia e di ordinata libertà a tutto il mondo ben piú intenso e vigoroso e vario delle novelle.

Al tono unitario di quella atmosfera gentile ed elegante ben contribuiscono il lieve e raffinato paesaggio del giardino in cui si svolgono le conversazioni e le narrazioni dei dieci giovani, come in un beato luogo di isolamento idillico, lontano dall’urgenza degli impegni pratici e dalla violenza delle passioni e delle vicende della vita. Cosí come vi contribuiscono il carattere e il comportamento dei dieci personaggi che sembrano riportare in sé l’eco del mondo aristocratico e cortese dei romanzi giovanili del Boccaccio e di certi aspetti fra autobiografici e poetici di quelli, in una nuova luce di maggior pacatezza. Soprattutto ciò avviene piú direttamente nei personaggi maschili: Panfilo, amante tradito e dolente, Dioneo, lieto e spregiudicato esaltatore dell’amore nei suoi aspetti piú edonistici e sensuali.

Ma anche i meno rilevati personaggi femminili ben rappresentano una varietà di profili e di psicologie entro la sostanziale unità di questo mondo di grazia lieve e gentile: Fiammetta, lieta del suo amore felice, ma sottilmente preoccupata di non essere delusa, Lauretta, amante gelosa, Pampinea, armonicamente saggia e sicura del proprio amore, Filomena, che aggiunge alla saggezza di Pampinea un piú ardente bisogno di amore, Emilia, tutta presa dalla propria bellezza, Elissa, giovanissima e sottomessa ad un amore che la turba e la fa soffrire, Neifile, piú apertamente sensuale e spensierata. Tutto è contrassegnato da un’aria di fervore giovanile, ma misurato, e privo di accenti violenti e drammatici.

E d’altra parte le novelle, entro il tenue e limpido cerchio della cornice, hanno un ordine in realtà assai libero e tutt’altro che rigidamente medievale. Mentre, come dicevo, esse non rappresentano un mondo di semplice evasione fantastica, un semplice alto divertimento che distragga dal pensiero della morte e dal quadro iniziale della peste, nella loro libertà e ricchezza fantastica ricreano realmente dei valori che il Boccaccio sente essenziali nella sua visione della vita e nella stessa ripresa di vita della sua città e di ogni città e comunità dopo le calamità naturali e catastrofi come la peste, che non sono nelle mani degli uomini.

Il Boccaccio, che pure non potrebbe rappresentarsi solo come un polemista antifratesco o un uomo nettamente e volontariamente antireligioso, ebbe certo nel grande periodo di creazione del Decameron una piú sicura prospettiva (poi rinnegata in parte nella vecchiaia) che, pur non chiamando in causa i principi religiosi, si pone di fatto come lontana dalla prospettiva trascendente medievale. Tanta è la forza con cui egli ridicolizza e mette in caricatura ogni forma di ipocrisia, di insincerità, di inutile e dannoso sforzo di sopprimere passioni e istinti naturali. Tanta è la forza con cui egli esalta la ineluttabilità, il diritto, la sanità dell’amore e del sesso, che può essere incentivo di azioni scellerate, ma può insieme portare ad azioni sublimi, eroiche, nobili e gentili, e che comunque in se stesso non può essere abolito e compresso da leggi esterne, da rigide convenzioni.

E intorno alla forza centrale dell’amore, tutte le forze naturali dell’individuo (come la furberia e l’intelligenza a difesa della propria conservazione, del proprio benessere, della propria dignità) vengono esaltate non in un brutale scatenamento di istinti bassi e malvagi, ma in un armonico svolgimento che sale fino a virtú eccelse, ma non sulla base di assurde convenzioni, sibbene su quella di istinti, passioni, sentimenti autentici, schietti, naturali dell’uomo e cosí capaci di divenire virtú individuali e sociali senza costrizione e senza ipocrisia.

Il mondo del Decameron è un mondo di estrema naturalezza e di estrema schiettezza e in tal senso esso rappresenta anche un momento eccezionale della storia non solo letteraria e ad esso sempre si poterono richiamare quegli scrittori che si sentirono «realisti» anzitutto nel senso di una rivelazione della realtà umana non falsificata.

Sicché si può facilmente comprendere come anche la tanto combattuta oscenità del Boccaccio (mentre in realtà il Decameron contiene molte novelle che nulla hanno comunque di erotico) sia in realtà una forma di sincerità, di schiettezza, di serietà, di moralità contro ogni camuffamento ipocrita e ipocritamente moralistico della realtà umana.

D’altra parte sul tema erotico si hanno nel Decameron infinite variazioni che ne alleggeriscono la possibile monotonia e ossessività sessuale e conducono sino a motivi tragici, elegiaci, eroici. Si pensi alla novella della Lisabetta da Messina in cui la passione amorosa della fanciulla si esalta in una profonda fedeltà per l’amante ucciso che la conduce a uno smemorato vaneggiamento e alla morte per consunzione.

O si pensi alla novella di Federigo degli Alberighi con l’accorato pianto del povero gentiluomo che ha sacrificato alla donna invano amata il suo caro falcone e proprio questo si sente chiedere da lei per il figlio malato.

O si pensi alla novella di Guglielmo Rossiglione e a al tono eroico e tragico che esso assume quando la donna si suicida per seguire il proprio amante ucciso.

O si pensi infine, su di un registro di gentilezza quasi eccessiva e di virtú quasi paradossale, alla vicenda di Griselda che per amore del marito sopporta da questo i piú inauditi maltrattamenti.

Cosí anche il motivo della furberia e della intelligenza si risolverà nella comicità vivacissima delle novelle delle beffe e dei modi o motti astuti con cui personaggi di diversa condizione sociale si liberano da situazioni difficili: si pensi alle beffe giocate a Calandrino, alla novella di Ser Ciappelletto e di Frate Cipolla, a quelle brevi e scattanti di Cisti fornaio e di Chichibio cuoco. Ma esso potrà giungere ad altre note piú alte e diverse, sia in novelle di crudele vendetta (come quelle dello scolaro e della vedova), sia in novelle in cui l’intelligenza si converte in magnanimità e cortesia assimilando significativamente mercanti e re come nella grande novella di messer Torello e del Saladino.

Da quest’ultima novella si possono trarre altre osservazioni. Anzitutto il fatto che nel Decameron le differenze della condizione sociale sono superate di fatto dai valori della intelligenza e della cortesia che possono parificare signori, borghesi, popolani, innalzando appunto al centro un gruppo di valori che meglio appartengono a un ceto borghese, medio, che può recuperare le virtú aristocratiche fondandole su piú sicure e individuali capacità: un ceto attivo, esperto, in lotta con la fortuna e consapevole delle leggi della natura umana e della realtà.

Sicché si può dire che il Boccaccio fa certo piú di ogni altro scrittore trecentesco presentire il mondo umanistico nel suo fondo piú attivo e certi aspetti del Rinascimento: l’Ariosto con il suo antiascetismo e il Machiavelli della virtú umana e della spregiudicata indagine sulle leggi economiche e politiche.

E insomma il Decameron è un libro di potentissima carica di rinnovamento e la sua grande arte non è un’arte di puro divertimento e di illustrazione idillica, ma è essa stessa portatrice e fondatrice di una visione della vita che troverà sviluppi fecondi nei tempi successivi. Ed è grande arte appunto perché la sua libertà fantastica, la sua ricchezza e alacrità di invenzioni e modi narrativi e poetici, ha questa potente base di consapevolezza e di visione realistica, questa solida base di problemi e di proposte.

Ed è un libro di potentissima forza narrativa. Chi ripensi alla grande novella di Torello, cui prima accennavo, ricorderà la forza del ritmo narrativo, di questa lunga e complessa novella, la sua sicurezza di svolgimento, la finezza di tutti i particolari realistici-psicologici (il modo con cui il Saladino riconosce Torello da un moto del suo occhio), la poesia delle scene e dei paesaggi: il paesaggio campestre in cui cavalcano il Saladino e i suoi compagni nella sera, la luminosa e fastosa scena delle accoglienze di Torello a Pavia nel suo palazzo illuminato dalle torce, l’interno della camera della moglie di Torello con le vesti sontuose ed eleganti da regalare agli ospiti, la scena del volo magico di Torello e del suo risvegliarsi stupito nella chiesa di San Pietro in Ciel d’Oro di Pavia.

Né d’altra parte potrebbe piú accettarsi un vecchio motivo di limitazione del capolavoro boccaccesco: il suo stile monotono, latineggiante, ricco di proposizioni incidentali e di clausole sontuose. In realtà si deve ben capire che questa prosa è una prosa poetica e che il suo ritmo ampio e sapiente non solo corrisponde ad un bisogno di armonia e complessità di ritmo musicale, ma corrisponde alla stessa complessità della intelligenza e della fantasia del poeta, al giro vasto e modulato del suo pensiero che non potrebbe certo risolversi in forme scabre e nude.

Anzi deve essere ormai chiaro ad ogni attento lettore del Decameron che questo stile ha grande ricchezza di varii movimenti entro la sua apparente uniformità e che il Boccaccio, con l’uso di modi aulici o viceversa dialettali, tende a riprodurre poeticamente (e cioè sempre entro una coerenza di ritmo suo, come suo è lo sguardo sulla realtà e non semplice fotografia) le varie inclinazioni e situazioni concrete dei personaggi, cosí come il taglio delle sue novelle varia fra quello breve e rapido della novella risolta da un motto, da una battuta, e quello lungo e sinuoso della vicenda psicologicamente e narrativamente complessa.

E tutta questa varietà di motivi e di modi espressivi si compone in una possente e limpida armonia di visione e di stile, frutto di una mente, di una fantasia, di una forza artistica che non lasciano mai nulla di oscuro, di grezzo, di inerte, che dominano, con alto equilibrio, la vasta e folta materia rappresentata e narrata e dalla sua varietà ricavano un ordine superiore, un generale ritmo robusto ed armonico.

Grande narratore-poeta, il Boccaccio del Decameron rimane anche per noi (al di là dell’immensa fortuna del suo libro come modello di prosa letteraria e di procedimenti e temi narrativi almeno fino al Settecento) l’esponente altissimo di un incontro profondo fra realtà e fantasia, di un’arte armonica e perfetta continuamente alimentata dal sentimento vivo della varia e complessa realtà dell’uomo e delle sue passioni. E mentre quest’opera suprema esprime un momento eccezionalmente importante della storia trecentesca (l’affermazione appunto dei diritti e dei valori della personalità umana entro una civiltà non necessariamente bisognosa di giustificazioni trascendenti e di schemi moralistici rigidi e convenzionali), essa si apre tanto piú fortemente a noi che, piú facilmente di altre epoche, possiamo superare gli ostacoli di un’incomprensione moralistica che finiva per identificare la seria, ricca libertà del Decameron con il gusto dell’osceno e l’esaltazione di un erotismo lascivo. Cosí come il nostro piú affinato e storico senso critico ci permette di superare l’incomprensione della prosa del Boccaccio come prosa pedantescamente retorica e monotona, e di riconoscere in essa la coerente e altissima espressione stilistica di un grande mondo poetico, intenso e complesso.

4. Le opere della vecchiaia

Si può ben dire che dopo il Decameron, e cioè dopo il 1351, la vera forza poetica del Boccaccio si è esaurita e che le preoccupazioni religiose e moralistiche non giovarono certo alla sua arte, la cui vera moralità era proprio nel senso lieto e serio della libertà, della iniziativa, della intelligenza umana. E certo colpisce il fatto che lo stesso Boccaccio abbia potuto persino pensare a bruciare il suo capolavoro, a rinnegare la grande poesia del Decameron.

Si trattava evidentemente di un’involuzione dell’uomo che si era portato molto avanti rispetto al suo tempo e che, nella incipiente vecchiaia, viene ripreso (in maniera molto diversa dalla religiosità piú profonda e costante del Petrarca) da elementi piú vistosi della sua stessa educazione medievale che confluiscono nella sua situazione di stanchezza, di malinconia, di senso della morte vicina.

Già nel Corbaccio, scritto poco dopo il capolavoro, si avverte uno spirito piú acre e risentito nella stessa violenza della satira contro le donne e l’amore (l’operetta è una vendetta del poeta rifiutato da una bella vedova, il cui marito morto appare a lui in sogno mostrandogli la vera natura dell’abominevole moglie), un che di piú angusto e limitato.

Ed essa è comunque l’ultima opera che abbia volontà ed andamento artistici. Ché l’ultima attività del Boccaccio è legata alla sua opera di umanista, al suo impegno di divulgazione della cultura classica (come il De claris mulieribus, o «delle donne illustri», le Genealogiae deorum gentilium, o «genealogie degli dei pagani», il De montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu paludibus, et de nominibus maris che illustra tutti i nomi geografici ritrovabili in opere letterarie, storiche e filosofiche dell’età classica).

Ciò che però sempre risulta anche in queste opere di erudizione (oltre a certo gusto di aneddoti, di piccole storie che richiamano alla vocazione del narratore) è il forte amore ed entusiasmo per la poesia a cui il Boccaccio rimase sempre fedele e che (pur cercandone giustificazioni di carattere allegorico, didascalico e morale) fu per lui soprattutto amore per la libertà fantastica, per la libera invenzione poetica e per la loro libera e naturale aderenza alla complessità e libertà delle vicende e dei casi umani.

Ed è in tal senso che anche la sua appassionata attività di commentatore (fino al canto XVII dell’Inferno) e di biografo (Trattatello in laude di Dante) del grande poeta della Commedia trova il suo centro vitale nel sentimento alto della personalità dantesca come esemplare di personalità poetica, incarnazione di quella poesia che fu la religione piú vera del Boccaccio.

L’attività del Boccaccio come studioso di Dante deve essere ricordata anche nella sua qualità di culmine di un lungo lavoro di interpretazione e di studio della Divina Commedia nel Trecento. Dai commenti dei figli di Dante (Jacopo e Pietro) a quelli di Graziolo dei Bambaglioli, di Jacopo della Lana, di Francesco da Buti, di Benvenuto da Imola, di Andrea Lancia (l’autore del commento denominato l’Ottimo), lo studio assiduo del grande poema dantesco si svolge durante tutto il secolo, variamente rappresentando tendenze di gusto, istanze filologiche e teologiche del tempo che concorrono in una complessa illuminazione sia del senso letterale sia di quello allegorico e storico del poema: la quale sarà utilizzata dai commentatori moderni, ma che soprattutto storicamente dimostra l’adesione fervida di tanti rappresentanti della cultura trecentesca al capolavoro della poesia medievale, inteso come opera di supremo impegno culturale, morale, filosofico, religioso ed artistico.

Ma, ripeto, il contributo piú alto del dantismo trecentesco è certo quello rappresentato dall’attività del Boccaccio il quale, meglio degli altri commentatori, e in forza della sua posizione preumanistica e della sua alta concezione della poesia, seppe lumeggiare piú fortemente la grandezza artistica di Dante, la complessità della sua esperienza di lettore ed emulatore dei classici, la funzione poetica dell’allegoria e della teologia, riuscendo insieme, in forza della sua qualità di grande narratore, a far risaltare, in alcune pagine del suo interessante commento, la profondità psicologica e drammatico-narrativa di alcuni grandi episodi poetici della Commedia.